La vera opera
Stati di Grazia, Cungi, 24-28 febbraio 2021
La fede non è speranza, è certezza.
Certezza fondata su un mistero.
Che sia fede rivelata in cui il Dio s’incarna, o patto tra gli umani rappresentato da una stretta di mano, è prova di quel che non si vede.
Per tale ragione, della fede si può solamente fare esperienza: non si può conoscere astrattamente, né si può ottenere tramite un atto volitivo.
O si crede, si ha fede, oppure no.
Desiderare di avere fede è fede?
Si potrebbe ipotizzare che una condizione di disponibilità possa facilitare il suo avvento. Ma non c’è alcuna certezza, in questo, alcuna garanzia. Tutti gli sforzi fatti potrebbero essere un fallimento. Non ci sono percorsi verificabili come nella scienza.
In questo, l’arte e la fede si somigliano.
Dell’arte si può fare esperienza unicamente tramite l’opera.
Consultiamo l’etimologia. Opera: lavoro materiale. Arte: mettere in moto, suscitare.
L’opera d’arte come esito di un percorso fisico, sensuale, che attraverso l’esperienza corporea è in grado di muovere verso l’altrove.
Disporsi a fare esperienza dell’opera (nel crearla, nel fruirla) è un modo di favorire questo spostamento, questo andare verso qualcosa d’altro – l’indicibile, l’invisibile?
Prima di guardare di là, oltre la soglia della porta che l’opera apre, soffermiamoci su di essa.
La sua natura è vicina al sacrificio. Non inteso soltanto come privazione di qualcosa, ma anche come azione volta a ‘fare sacro’, a rendere sacro uno spazio (anche dell’immaginazione). Ovvero, a separare dal profano, dal quotidiano. Che si riferisca a un luogo, un periodo di tempo, una persona, un oggetto, il sacro ha per effetto di richiedere un cambiamento nel comportamento umano. Un comportamento diverso da quello che si avrebbe di fronte allo stesso genere di cose prive di sacralità.
L’opera d’arte come sacrificio è investita di una particolare potenza, in grado di far affacciare verso un luogo al contempo venerando e temuto, benefico e pericoloso.
Per tale motivo l’arte può spaventare.
Perché distoglie dal profano – la rigida organizzazione umana, con tutte le sue falle – per aprire al sacro – che prende in esame la natura umana con le sue secolari domande, ma che anche può cantare e portare al centro altri esseri più antichi di noi. Il seme e la sequoia. Le sedimentazioni dove leggere le ere geologiche. Il cosmo e la sparizione degli Dei. Gli ‘astuti animali’ che possono vedere l’Angelo, come sapeva Rilke. Che scriveva un secolo fa, nella prima elegia duinese, quello che noi continuiamo solamente a intuire: che “il bello è solo/ l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena, /e il bello lo ammiriamo così perché incurante / disdegna di distruggerci”.
Quello che è accaduto a Cungi, un casolare in Valtiberina, mentre fuori imperversava la peste, alla quale siamo dopo pochi giorni ritornati, è indubbiamente stato esperienza di questo.
Interrogare noi stessi sulla fede con i mezzi della ragione, del confronto verbale o della sollecitazione tramite esempi dell’immaginario, ci ha predisposto ad accogliere il sacro, inteso qui non precisamente o soltanto come ciò che è legato alla divinità e ai suoi misteri, quanto quale attitudine umana diversa dal profano, dalla ‘vita di tutti i giorni’. Essa non è inferiore all’altra dimensione, ma è diversa, richiede altri tempi, porta altre preoccupazioni, ingaggia altre sfide. Dalla nostra conoscenza, o meglio esperienza, del sacro possiamo attingere per indirizzare diversamente la nostra vita quotidiana. Chiunque abbia avuto esperienza del sacro (non solo tramite l’opera d’arte, certamente; esso si manifesta in molti modi) torna alla propria vita cambiato.
Per tale ragione quando durante il ritiro siamo passati all’azione, quindi al ‘lavoro materiale’ che potesse rendere in concreto quanto detto teoricamente, qualcosa è avvenuto e ha cambiato le persone presenti. Il ritorno alle proprie vite non è stato solamente ricco del ricordo di un’esperienza, ma porta attivamente con sé anche un segno, ovvero la cosa sensibile che oltre a manifestare se stessa, manifesta anche altro.
Se il patto di fede è stato rappresentato per secoli con una stretta di mano, il fatto che ai nostri giorni questo sia negato porta delle conseguenze. Ogni simbolo, che significa ‘mettere insieme’, è più di se stesso.
Quello che è successo a Cungi è stato il tentativo di pensare nuovi modi per simboleggiare il patto che tiene insieme gli uomini tra loro, ma anche la fede che ci fa percepire il tutto, persone e paesaggi, animali, satelliti, spiriti, alberi, fondali marini e creature estinte.
Quando la terra sotto i piedi trema, i punti cardinali che orientano le nostre vite sembrano vacillare, quando la paura ci invade, l’impotenza ci paralizza, la rabbia ci sottomette: fermiamoci. Facciamo la conta di quel che c’è e non solo di quello che manca.
Ciò che abbiamo per contrastare il disastro non è molto, all’apparenza: delle canzoni, dei piccoli riti, alcuni gesti di premura, insospettabili ricordi che affiorano. Abbiamo gli altri intorno, che forse non vediamo, ma che pure sono con noi – e spesso quello che desiderano è qualcosa di molto semplice, che ci affratella. Ci sono rocce, e boschi; i platani nei viali delle città, con i nidi degli uccelli. Ci sono quelli che cercano di creare piccole porte misteriose, quegli affacci che si direbbero inutili che danno sulle grandi questioni umane, forse le stesse dalle caverne di Lascaux a oggi. Ci sono tutte le porte misteriose che l’arte ha creato lungo la storia dell’umanità e che continuano ad aprirsi per noi. Ci sono i nostri fallimenti, ma ci sono anche i doni inaspettati. Come dice la poesia di Wendell Berry ‘La vera opera’:
Può darsi che proprio quando non sappiamo più cosa fare
siamo arrivati alla nostra vera opera,
e che quando non sappiamo più dove andare
siamo arrivati al nostro vero viaggio.
La mente non perplessa non si adopera.
Il torrente ostacolato è quello che canta.
Per concludere, quello che si è intravisto durante questi Stati di Grazia è che l’opera d’arte, come la fede, non è consolatoria, ma può consolare. Non è una parabola, ma può indicare delle vie. Non per forza ha a che fare con l’impegno civile, ma può unire le persone. Non è l’esito un atto di volontà, ma richiede la volontà di disporsi ad essa. Non è una forma di resistenza, ma un oltrepassamento di ciò che le si oppone. Non è solo fisica, ma accade attraverso i corpi.
Per tali ragioni, essa è oggi scandalosa, per riprendere un termine religioso: avere fede (nell’arte, nelle persone, in Dio, in un ideale) è uno scandalo, un miracoloso ostacolo nel torrente dei nostri giorni, capace di far alzare un canto imprevedibile. Così come lo è l’opera d’arte – il suo aprire porte sul sacro, distogliendoci dal profano delle nostre vite, si rivela come un inciampo. Qualcosa di inaspettato, bello e tremendo, che sopportiamo appena.
Gli artisti hanno il dovere – etico, morale, ontologico – di prendersi il tempo per pensare le loro opere. Per disporsi alla fede, creare feritoie e invitare gli altri a guardare di là.
Persino se nessuno volesse mai più aprire un teatro, una galleria, un museo, pubblicare un libro, organizzare un concerto, l’artista e tutti coloro disponibili all’ascolto non smetteranno di avere fede. La chiusura delle occasioni di incontro non sarà perenne, c’è da augurarsi: tante questioni anche profane impediranno che un’intera parte del nostro mondo svanisca, venga smantellata del tutto. Ma la cosa meravigliosa è che comunque non sarà questo a fermare l’arte.
Perché bastano anche due soli corpi per far riverberare un canto, affinché l’opera apra lo spazio del sacro, dove tutto l’universo è uno.
Partiamo dunque adesso da qui: dalla nostra presenza, in piccoli gruppi, predisposta al sacro.
Azzurra D’Agostino