Appese al muro della mia camera, il mio rifugio dal mondo dove potevo ballare e cantare usando il deodorante spray come microfono, c’erano due stampe: fotografie dello spazio, una galassia, l’altra una costellazione, cieli dalla prospettiva capovolta. Mi rassicuravano, mi davano la percezione della verità, la perfezione non avrebbe mai cullato il sonno.
Con il passare delle stagioni ci si ritrova a camminare su un ponte. Sospesi nel nostro tempo, corto, molto spesso dato per sprecato, esauribile, dilaniati dal microcosmo.
Una strada con il capolinea uguale per tutti in cui galleggiamo per interi attimi e consecutive apnee come in attesa di conferme, accettazioni e riguardi, di compiacimenti, lusinghe e apprezzamenti. Croste di cellule ricreate da azioni cinematografiche trasmettono l’onda mentale di un pensiero che crediamo universale e basato su canoni di bellezza profumati da inseguitori virtuali e plastici. Ci sfugge quel ponte dalle pareti di specchi che sta sotto i piedi nascosti dalla nebbia.
Troppi o pochi atomi? Io stessa, mi guardavo riflessa, vedevo sempre qualcosa di sbagliato, captando quei segnali artificiali che mi riempivano le pupille di mancata soddisfazione e finivo col ritenermi inguardabile.
Sentiamo raccontare una storia, come una litania, una canzone orecchiabile, sempre gli stessi quattro tempi, la sentiamo nella nostra mente, ha la nostra voce ma proviene da un ammasso di stagno e petrolio. La verità deve essere per forza una sola ci diciamo, e per l’ardente voglia di novità, di una vita sfrontatamente ritenuta non noiosa e calzante a pennello, memorizziamo quella appena sentita, l’ultima delle ultime.
Lo stesso allenamento mentale lo riproponiamo con etichette pre-stampate e pre-confezionate, ce le tiriamo addosso, perfezionando negli anni la mira, e dopo un po’ riusciamo pure a fare centro. Un tiro con l’arco per battere il record di cuori straziati dal peso di quella nebbia, entrata nelle ossa, fino all’ultimo giudizio che ripetiamo come pappagalli rabbiosi e inferociti. Vogliamo la ragione e vogliamo essere creduti, vogliamo che il nostro giudizio sull’altro resti marchiato a fuoco perché così è stato fatto a noi: “Nessuno deve essere più felice di me, nessuno può permettersi di essere più triste di me, nessun altro può avere la tranquillità che io non ho avuto” , ci diciamo.
Muro, muro, muro! Gli urliamo contro quando non siamo ascoltati, quando non vediamo annuire al nostro giudizio. Gridiamo quando il ponte si trasforma in una salita e ci stanca pensare di percorrerla…
…dalla nebbia non si vede la fine…
…urliamo al muro per farlo riabbassare…
…perché tutto torni piatto
e facile,
e versatile
abituale.
Ma gli specchi non possono riflettere la voce, perciò sillabiamo movenze che vogliamo rendere appetitose alle altre sagome, quelle che riusciamo a scorgere in quell’intreccio di aria turbolenta, eppur pochi sanno cosa è vero, quasi nessuno. Viviamo nel presente con la consapevolezza del trionfo e del fallimento, dualismi illogici e scatenanti l’ira, la rabbia e pura paura, non possiamo più smettere di vivere senza stati di animo in continuo lamento. Storie che non raccontiamo ad alta voce, fino a trasformarle in un passato diverso, in quella nebbia fitta che circonda l’anima. Arriviamo a non credere più nei fantasmi, negli spiriti ancestrali ingoiando pillole di falsa felicità, nel peggiore dei casi.
E così passa il tempo, così passa il ponte sotto i nostri piedi, quasi senza calpestarlo, così arriviamo al capolinea, falsamente felici. Io no, o perlomeno ci provo. Da quel ponte cerco di vedere solo bellissime stelle, forse sono solo stampe, sono finte, ma perlomeno non fatico a percorrere quella salita per giungere fino a loro.