Seguendo la scia della proposta nata dall’interazione degli artisti e della curatrice, di instaurare un dialogo tra i metodi e i processi della produzione artistica di quattro sguardi diversi, abbiamo invitato Patrick Maurizio Ferrara, giovane laureando alla Magistrale in Scienze socio-antropologiche per l’integrazione e la sicurezza sociale, a lasciarci una sua traccia scritta di quello che lui ha potuto vivere come fruitore, con quella modalità che permette di potersi “guardare da fuori”, ovvero capire attraverso gli altri, il sentiero che abbiamo tracciato, quando si sperimenta un linguaggio fuori dalle cornici.
Questo di seguito è il testo che Patrik ha scritto per noi e che ci dà modo di riflettere non solo su ciò che è stato fatto, ma anche su ciò che e possibile continuare a fare.
La mostra Dialoghi (In)Naturali, porta alla luce le infinite modalità di relazione e di creazione che l’arte può mettere in scena.
Qui la Gallery della mostra e dei laboratori.
Dialoghi (in)Naturali
di Patrick Maurizio Ferrara
La socialità, scriveva Richard Sennett, è una questione problematica: determinante nella progettazione e nelle pratiche quotidiane, essa «definisce un tipo di moderata fraternità con gli altri, basata sulla condivisione di un compito impersonale. Questa fraternità moderata nasce quando la gente fa qualcosa insieme invece di limitarsi a stare insieme». Nata proprio dall’intento di sollecitare nuove forme di cooperazione e di dar vita ad un laboratorio che potesse coinvolgere e intessere i fili della comunità locale, la mostra “Dialoghi Innaturali”, inserita all’interno del Bando della Regione Toscana Incontemporanea22 e inaugurata il 18 dicembre presso le sale espositive di CasermArcheologica, sancisce il punto di incontro tra realtà artistiche, sociali e spaziali spesso disomogenee tra loro, innescando un processo di contaminazione e di rimescolamento creativo volto a capovolgere i consueti canoni dell’arte, della sua fruizione e degli schemi percettivi che la animano.
Ilaria Margutti, Edoardo Pellegrini e Bernardo Tirabosco compongono il coro di voci appositamente selezionate dalla curatrice Mara Predicatori – pedagogista, storica dell’arte e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia – per inscenare e coordinare, talvolta forzatamente, un dialogo che permettesse di far interagire gli artisti e i luoghi coinvolti con persone estranee al mondo dell’arte, adoperando la poetica e le competenze specifiche di ciascun protagonista nella costituzione di una proposta flessibile e apertamente collaborativa.
Al fine di individuare i punti di contatto e di divergenza relativi alla loro arte e al progetto da sviluppare, si sono resi necessari dapprima una serie di incontri conoscitivi tra i tre, culminati successivamente, a distanza di qualche mese, nella residenza artistica tenutasi dall’11 al 15 novembre presso la sede di CasermArcheologica: durante il soggiorno, tra i partecipanti si è palesata l’esigenza di proporre un’opera ibrida e partecipata che potesse esaltare l’individualità e l’autorialità di ciascun componente, tematizzando, al contempo, un tentativo di sovvertimento dei comuni canoni artistici contemporanei.
Il desiderio di ribaltare questa prospettiva e di riconsiderare la logica sempre più imperante del “guardare ma non toccare”, ha reso necessario pensare e ripensare nuove forme di dialogo, elaborando metodi alternativi di partecipazione e di produzione artistica: nella prima fase del progetto, tramite il coinvolgimento di circa centocinquanta ragazzi tra scuole locali, associazioni e liberi cittadini, sono state prodotte delle scansioni estrapolate da alcuni giornali di cronaca acquistati durante le giornate di laboratorio. Successivamente, ciascun artista ha personalmente lavorato e selezionato tre di queste scansioni per ricavarne dei manifesti artistici destinati ad una duplice finalità: mentre una parte veniva affissa nelle strade di Sansepolcro, un’altra veniva esposta ad Arezzo, nella sera del 17 dicembre, sulle pareti di Sottofondo Studio, il laboratorio artistico nato nel 2019 di cui Bernardo Tirabosco è ideatore e fondatore, invitando gli spettatori presenti a intervenire in modo diretto e del tutto personale sulle immagini proposte e, dunque, sul lavoro stesso degli artisti. Interessante sottolineare l’ambivalenza intrinseca di questa iniziativa: se l’affissione di manifesti non commerciali in spazi comunemente destinati all’uso pubblicitario ha rappresentato un tentativo, talvolta provocatorio, di portare la produzione artistica al di fuori degli abituali spazi espositivi, l’intervento collettivo realizzato il 17 dicembre ha testimoniato invece l’esigenza di portare dentro ciò che sta fuori, tramite un processo di destrutturazione e di ridefinizione di sé e della contemporaneità. Edoardo Pellegrini, che da anni ha trovato nella scannerizzazione delle immagini e nell’affissionaggio la propria cifra stilistica, ha parlato in tal senso di un tentativo di riappropriazione della città, della parola, del linguaggio come di un momento transitorio in cui poter riflettere sul ruolo comunicativo dell’arte e sul riscontro percettivo da parte di fruitori eventuali e occasionali.
Fino al 25 febbraio, oltre ai manifesti manipolati, nelle stanze di CasermArcheologica sarà possibile ammirare le installazioni proposte da ciascuno dei tre artisti coinvolti, testimonianze concrete del loro personalissimo punto di vista sulla mostra e sui significati del dialogo tentato.
Il contributo di Edoardo Pellegrini, prima tappa del percorso espositivo, è fortemente incentrato sull’idea del tempo e del contemporaneo: affisse alle pareti, infatti, il pubblico troverà le pagine di giornale acquisite durante il laboratorio svolto con la cittadinanza, reperti emblematici di quel preciso momento storico e spaziale. Le dimensioni dell’installazione (sette metri per sette) sono quelle di Guernica, l’opera che più di tutte è riuscita a denunciare la tragicità e la violenza del proprio tempo, mentre la scritta sovraimpressa del poeta Marco Fellini (Rivoltare lo stomaco della scena) manifesta apertamente il tentativo da parte dell’artista di rovesciare e ridefinire le trame del contemporaneo. Nella stessa sala poi si troveranno esposti altri tre lavori dell’artista lucchese, scaturiti anch’essi dall’utilizzo dello scanner: le immagini affisse sui muri altro non sono che dei fotogrammi di notizie di cronaca scattati durante la messa in onda di alcuni telegiornali e successivamente rielaborati dall’artista tramite un lavoro di scannerizzazione e di intervento col colore.
Procedendo lungo il percorso della mostra sarà possibile apprezzare l’installazione artistica elaborata da Ilaria Margutti, la quale, insieme a Laura Caruso, di CasermArcheologica è fondatrice e colonna portante: all’interno della seconda sala infatti si troverà sospesa una tela ricamata frutto del lavoro dialogico e collaborativo instaurato dagli artisti con gli oltre centocinquanta ragazzi che hanno aderito all’iniziativa, ai quali è stato chiesto dapprima di selezionare e successivamente di riproporre, attraverso la pratica del cucito (il mezzo espressivo prediletto dall’artista modenese), gli elementi visivi e testuali di maggior interesse ricavati dalle pagine dei quotidiani. Così facendo, il lavoro di ricamo, che è assai lento e meticoloso, ha permesso di “fissare” sulla tela l’istantaneità e la transitorietà che tipicamente compongono il tempo della notizia, garantendo ai partecipanti un momento in cui poter metabolizzare e riappropriarsi delle idee e delle parole riportate.
Infine, l’ultima installazione imbastita per completare le trame di questo dialogo è quella di Bernardo Tirabosco, il cui linguaggio e la cui poetica hanno trovato stretta corrispondenza nell’architettura e nelle cromie che contraddistinguono gli elementi ambientali della terza sala. Il lavoro dell’artista aretino si è sviluppato tramite l’utilizzo di materiali organici quali cera e sapone (da sempre, suo tratto distintivo), volto a stabilire un dialogo armonico e interagente con la parte scultorea dello spazio interessato. I calchi di ossa di animali, assai simili, per forme e dimensioni, a degli ex voto, richiamano le decorazioni, talvolta grottesche, presenti sulle pareti della sala. Le composizioni in sapone invece, sospese in tensione tramite l’impiego di ganci, compongono un gioco di pesi ben amalgamato nelle geometrie degli ambienti in cui sono calate.
Per sperimentare l’innaturalezza dei dialoghi impostati durante l’allestimento della mostra, e per poterne cogliere la polivalenza di attributi e di significati, sarà necessario confrontarsi con l’osservatorio artistico e sociale che ne è scaturito: l’interazione instauratasi tra i tre artisti, il coinvolgimento e la partecipazione attiva della comunità, così come il ricorso a spazi espositivi, per intenti e finalità, assai dissimili tra di loro, offrono l’opportunità di riflettere e di riconsiderare l’importanza che le pratiche di coproduzione possono assumere nella costituzione dell’identità personale e cittadina, promuovendo una progettualità nuova e democratica, aperta al dialogo, ai rischi e alle difficoltà che ne possono derivare, basata su un impegno vis-à-vis tra i progettisti e la cittadinanza partecipe: «il risultato può essere ambiguo e lasciare una certa insoddisfazione», scriveva ancora Sennett, ma riconoscerne il peso e i meriti è da considerarsi già un ottimo punto di partenza.