Alessandra Baldoni, poetessa e fotografa.
Il quadrato
Una deposizione di sassi dolenti, ogni pietra un rancore messo agli angoli. Una pira al centro – pronta al fuoco, pronta al dopo. Le monete sono fossili lucenti d’acqua, bava notturna di lumache, iscrizione argentea di un codice cantato alla notte del bosco. Parola di un profeta senza bocca. Rami e fronde, le parole fanno ronde intorno al distacco, alla crepa che ha rotto l’argilla. Dentro al confine un bottino, la rapina degli intenti, i resti di tutti i gesti spezzati. Davanti al re siamo tutti colpevoli, ogni parola detta è lesa maestà.
Esercizi
Soldati marcianti spolpati dalle armi, crociata per sepolcri traditi. Cavalli al galoppo che non spostano la terra. Ci prepariamo alla guerra. Le lame tagliano l’aria, pugnali nei palmi compiono sacrifici invisibili mentre le divinità restano indifferenti. I piedi battono, pestano serpi arrotolate ed i polmoni respirano nonostante il fuoco nonostante il diavolo. Avanzare danzando, avanzare tagliando con il riverbero del corpo il giorno che sorge. Ascolto. Vi sento arrivare, ascolto la terra aprirsi- la fede è questa testuggine il cui ritmo sale come la febbre come la sete. Il silenzio è carta strappata, è taglio che scuce l’orlo di ogni certezza. Tienimi le mani, tensione di bilancia starata.
Non tornano mai i pesi e le misure. Si strappano le vesti, soffrono i tendini.
RICORRENZE
I licheni disegnano geografie nel ventre del bosco. È sacro il luogo dove vanno a bere i cervi. Dentro è il fuori rovesciato, è recinto fatto di limite, striscia di pelle tagliata e distesa, confine interdetto a chi non sa pronunciare la parola – sanguinante verbo che sale, ascensione sporcata da terra e fango, seme disperso e deriso.
Questa fede che ci perde, sentiero interrotto, incertezza dei piedi. Non è segnata sulla mappa, forse è scritta nei licheni, raccontata dalle cortecce, sussurrata dagli alberi di notte sotto una luna penitente – aureola di santo martoriato che illumina solo la nostra paura. Smarrito è il senso, smarrita la risposta. Deposta la certezza resta la verità delle ossa vuote – da suonare come flauti- dei resti morti. Il nascondiglio è il luogo del commiato, è un nido rotto, una coperta di foglie bagnate e fragili, esposte ai venti. E mentre misuro la perdita con un’imperfetta matematica mortale -io che non so pensare l’infinito e che mi lascio tradire dai numeri- ecco che vedo una tavola apparecchiata. I tovaglioli bianchi, sembrano carta -qualcosa di rivelato e cancellato, già dissolto- il candore mi fa pensare alla rovina, a ciò che eroso tace tra i miei ignari palmi. Un’ultima cena di apostoli dissidenti riuniti attorno ad un tavolo, devoti ad un rischio, all’incertezza furibonda della domanda, all’inaudita risposta che risuona con gemiti. Se dio ci parlasse ci brucerebbe le orecchie, si spaccherebbero in due i pensieri / non potremmo capire la lingua di dio. A noi serve la pietra, le incise regole in segni conosciuti, e mentre penso che il mondo tutto geme, emette sillabe e suoni come scosse elettriche – sento la terra tremare, un sussulto da dentro da sotto. Lo capisco ora. Siamo tutte vittime sacrificali, una lama ci minaccia la gola, un altare freddo è pronto per noi. Allora il rito è risposta alla morte: la frantuma, la ripete, la consuma nella pedissequa e laconica messa in scena dei gesti. Asciugo coltelli e forchette di nuovo bagnati e di nuovo da asciugare in un’azione vuota che si riempie nel gesto. Le mani bagnate, il cotone si inzuppa e si fa pesante come un sudario. Cosa sto asciugando? Sono posate, è acciaio o è il mio corpo ferito che sanguina su un tavolo ospedaliero? Sono questi gli attrezzi metafora del pasto e della medicazione, sono gli utensili del martirio umano – della malattia che ci appende ad una croce? Sono incantata dai riti anche se ne conosco l’ambiguità, anche se so che sono una via corta, una risposta zoppa. Perché il divino dilania e squarcia, fa brandelli, non parla la mia lingua – emette un suono mostruoso capace di separare i mari ma non di parlare al mio cuore. Strappa le mie orecchie, mi caccia fuori gli occhi dalle orbite con un cucchiaio di morte, la pelle rende piaga. Io riconosco il divino ma non lo so ascoltare.
La mia fede arriva fino alla prossimità con l’ignoto, fino al cadavere del mio corpo, fino al salto all’indietro, all’inutilità dei punti cardinali, alla perdita del mio amore. Ho un mondo intero sepolto nella mia testa, ho una processione di desideri irrisolti che cercano un fuoco in cui ardere, un rogo che li renda santi ed impuri insieme. Un postura sacra voglio assumere io ma con la gravità del corpo, con questa carne fragile che porto. Chissà se esiste equilibrio o è tutto uno stare solo un piede respingendo i venti avversi, uno schivare di un soffio di cristallo la voragine. Le promesse risuonano come monete, sono zecchini nascosti sotto una terra in attesa di fioriture d’oro e di abbondanza. Le promesse sono pietre che si accumulano sul fondo che mi mangiano i piedi fino alle caviglie, come palude mi ingoiano, come colla mi fermano. Continuo ad inciampare nello stesso scalino ormai spaccato dall’urto, logoro. Lucenti le monete si fanno specchio, lucenti sono come uno scudo. Mi accascio e nascondo in questa cavità dorata, guardami da questi vetri insaponati dalla fede, immagina la mia forma, immagina che io sia ciò che vuoi. La visione non è chiara, la visione è inganno. Scegli dunque la menzogna che preferisci, scegli quella piena di grazia. Dimentica i chiodi, dimentica il sangue. Guardia al mistero, all’ignoto, a ciò che nell’invisibile vaga con occhi da matto.
Dimentica le spine, l’inconsolabile pianto. Dimentica le dolorose rime. Siamo qui per alzare un canto, imperfetta musica terrestre che splende nella stortura, che riluce nella stonatura.
Testi all’arrivo: ogni artista, sollecitato/a dal testo Sfidare la fede, di Emmanuele Curti, ha contribuito con una raccolta di riflessioni, proprie e/o di altri autori, prima dell’arrivo in residenza.
TANTA FEDE IN TE
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
(Antonia Pozzi)
Ho un’anguilla arrotolata nel petto. Un buco tondo come un catino bianco e dentro una serpe d’acqua. Una rilucenza fatta di squame, cornee che mi fissano lacrimose. Annunciazione anfibia, un angelo annodato anziché genuflesso che vorrei prendere ed inchiodare al muro. Nessuna vergine, nessun parto. Solo un buco dove poggiare l’occhio e vedere cosa mi manca, un imbuto che si mangia il grido dell’ignoto, un infinito di infinito tempo-siderale-che mi schiaccia tra indice e pollice. Io che sono poco più di niente, particelle casuali, tempo misurato in millimetri. Ho la paura che mi graffia gomiti e ginocchia, che mi consuma le articolazioni – mi mette davanti al mostruoso. Cosa c’è oltre la geografia certa del mio sguardo? Quando ascolto una lingua non conosciuta cosa ferisce le mie orecchie? Se mi chiamassi, se chiamassi il mio nome dal regno delle ombre riuscirei a non voltarmi? Starei sulla soglia come statua di sale, il collo che tira in un movimento inespresso, le spalle appese ad un’intenzione. Forse non so avere fede abbastanza, non so cadere all’indietro. Fa male allo stomaco, come quando un rumore riempie il buio ed il corpo si ferma pesante e bastardo, disobbediente ad ogni richiamo. Sette spade di dolore, sette i mari, i sacramenti ed i peccati capitali. Sette i sigilli scarlatti, rotti al suono delle sette trombe. Odio l’ostensione del martirio, la piaga mostrata, i rivoli di sangue. Questa memoria d’infanzia fatta di un dio dolente impiccato ad una croce. I miracoli accadono sempre non visti, indifferenti allo stupore. So di non essere capace di una vita misurata su un premio, ordinata e diretta, preferisco una grazia terrena ed imperfetta fatta d’amore perfino sciupato, perfino sbagliato. Preferisco un debordante spreco, un eccesso non calcolato. Neanche la verità mi interessa poi così tanto. Meglio un’infinità di versioni – basta siano ben raccontate. Ho fede nella parola, nella narrazione. Nella trama, ordito medicale e mendicante di esistenze. La parola è l’antidoto, l’unguento, è il sestante per l’ignoto mare. E’ la direzione in un cielo muto, di stelle staccate, scucite dalla volta. Confido nella parola, confido nella ferita che sa dire, nel ricamo che sa disegnare. Lo stato di grazia è per me l’esattezza del verbo, è il serpente nel cuore – il terrore e lo stupore che si incontrano in un luminoso fendente, un incendio che avvera il mondo.