‘500 chili più scotch’, la nascita della torre di cartone di CasermArcheologica

Testo di Eleonora Marangoni

I simboli hanno tante vite, e di vite ne uniscono, nello spazio e nel tempo. È quello che si capisce quando si ascolta la storia della torre Berta a Sansepolcro. La torre venne edificata a Sansepolcro nel 1198 per volere di un consorzio di famiglie della zona, in quella che allora era la piazza delle Erbe. Misurava quasi quaranta metri, e per secoli fu l’emblema del borgo. Venne rasa al suolo il 31 luglio del 1944, durante la rappresaglia di un gruppo di tedeschi in ritirata. Da allora quella piazza porta il suo nome, e se negli anni si sono avvicendati diversi progetti di ricostruzione, nessuno è mai stato realizzato. La torre però in qualche modo è rimasta: come nome e come simbolo. E sabato scorso, nel cuore di Sansepolcro, di torre ne è spuntata un’altra.

Nel cortile di palazzo Mugnoni, all’interno degli spazi di CasermArcheologica. È alta quindici metri, ed è tutta di carta. “Cinquecento chili più scotch”, dice Olivier Grossetête, l’artista francese che l’ha disegnata in collaborazione con Cristophe Goddet. Grossetête da vent’anni costruisce architetture monumentali in giro per il mondo. Goddet è l’ingeniere che lo assiste, e insieme a lui misura, calibra, verifica la tenuta delle loro visioni di carta. Oltre alla grazia delle forme, la forza delle opere di Grossetête sta nella loro essere creazioni collettive e partecipate: che sorgano in piazza a Shangai o sul porto di Marsiglia, è la gente del posto che si dà appuntamento e unisce le forze per realizzarle. E costruire, si sa, genera energie, legami, nuove connessioni e risorse impreviste.

 

A ordinare, modellare, piegare e assemblare gli oltre 450 scatoloni della nuova torre Berta sono stati trenta ragazzi. Tutti volontari, tutti tra i 14 e i 18 anni, studenti nelle varie scuole della zona, che hanno poi continuato a lavorare con Grossetete e Goddet per la settimana successiva, per progettare altre costruzioni in cartone, ispirate alle architetture cittadine e destinate ad arricchire o modificare gli spazi interni del luogo in cui questa impresa è stata immaginata e trasformata in realtà.

“Spacco pietre”, risponde il primo.

“Mi guadagno da vivere”, dice il secondo.

“Partecipo alla costruzione di una cattedrale”, risponde il terzo.

Questo luogo è CasermArcheologica, uno spazio su tre piani e dalle mille stanze, attivo dal 2017 in un palazzo del centro storico di Sansepolcro a due passi dal museo civico e dalla casa di Piero della Francesca. Palazzo Muglioni ha vissuto mille vite: è stato caserma, quartier generale partigiano durante la guerra, salotto letterario nell’Ottocento e forse anche convento nel corso del Cinquecento. È uno di quei luoghi in cui ogni angolo parla, in cui strati e i percorsi si sommano, arricchendosi l’uno con l’altro.

   

“Hell is a place where nothing connects with nothing”, ha scritto TS Eliot, e qui a CasermArcheologica succede tutto il contrario: qui le generazioni si incontrano, gli abitanti del borgo scoprono nuovi modi di essere cittadini, i ragazzi si fermano a studiare, gli artisti incontrano altri artisti, scoprono un nuovo pubblico, trovano nuovi spazi per esporre. I curiosi curiosano, i contemplatori contemplano, sconosciuti si presentano e si scambiano idee, visioni o anche solo parole.

È uno di quegli spazi che si fa fatica a definire, per tutto quello che rappresenta. Come ha detto Cecilia, una delle ragazze volontarie che hanno partecipato alla costruzione della torre e frequenta il posto da quattro anni: “Caserma è tutto quello che non so.” Un luogo in cui il tempo si è fermato ma al tempo stesso corre velocissimo, che mescola rigenerazione urbana, costruzione di comunità e progettazione culturale. Un laboratorio instancabile che rifugge le etichette, da sempre votato all’inclusione e alla sperimentazione, che lavora per la bellezza e le contaminazioni. Di linguaggi e visioni, di genere e generazioni.

La costruzione collettiva di una torre di carta non è forse un simbolo perfetto di tutto questo?

Inizialmente l’opera di Grossetête sarebbe dovuta sorgere nella piazza in cui si trovava in origine, ma le restrizioni di quest’anno complicato hanno portato gli organizzatori a ripensare il progetto, e a ospitare la nuova torre nel cortile di palazzo Muglioni. È rimasta lì per una settimana, e verrà abbattuta oggi alle ore xxx, “non si sa ancora bene come, perché di solito lavoriamo in spazi aperti più ampi, mentre qui nel cortile non c’è spazio di manovra”, dice lo stesso Grossetete.

“Speriamo che piova, altrimenti qualcosa ci inventeremo”, aggiunge, e chissà che effetto farà vederla andar giù. A costruirla sono serviti quattro giorni: tre di preparazione e una mezza giornata di montaggio vero e proprio, un pomeriggio di settembre che chi c’era non dimenticherà. Si è proceduto dal basso verso l’alto, progetto alla mano, sollevando man mano i livelli già montati per inserire i successivi. C’era un gran via vai a Palazzo Muglioni: di artisti, volontari, curiosi, bambini, fotografi e videomaker. Tutti riuniti intorno a un progetto e a un obiettivo comune.

“Uno, due, tre”, gridava Grossetete ogni volta che ci si preparava tutti insieme a sollevare la struttura per issare un nuovo piano. E subito dopo, appena i cartoni venivano inseriti, qualcun altro aggiungeva: “Scotchate tutto!”, “Scotchate tutto!” Il rumore del nastro srotolato all’interno della corte ricordava il suono delle sartie di una barca, e chi era lì lo sa: l’impressione non era quella di partecipare a un gioco, ma di essere parte di qualcosa.

“Caserma è tutto quello che non so.” Un luogo in cui il tempo si è fermato ma al tempo stesso corre velocissimo, che mescola rigenerazione urbana, costruzione di comunità e progettazione culturale.

“Silenzio, citti!”, gridava Sara, che aveva i punti a una mano, e non potendo partecipare fisicamente alla costruzione faceva da guida e da interprete, e ha tradotto per tutto il pomeriggio le istruzioni di Grossetete e Goddet dal francese all’italiano.

Far nascere strutture effimere in un posto senza tempo è il contrario di un capriccio: è una pratica di libertà, la conquista di una visione. L’impresa ricorda la storiella dei tre uomini al lavoro nel cantiere. Che fate, chiede ai tre uomini uno che passa di lì.

“Spacco pietre”, risponde il primo

“Mi guadagno da vivere”, dice il secondo

“Partecipo alla costruzione di una cattedrale”, risponde il terzo.

La costruzione della torre è stata proprio questo: prendersi cura di un simbolo, del territorio, dei legami e delle storie che quel simbolo rappresenta.”Why not?”, com’era scritto sulla maglietta di una delle ragazze partecipanti. A montaggio ultimato, è servito un ultimo assestamento per spostare la nuova torre berta al centro del cortile. Si è finito alle 18:55, con la punta della torre illuminata dal sole.

Del resto il nome Berta ha origini latine e significa “splendido, luminoso”. Nuovi torri nascono e antichi cerchi si chiudono, abbracciando quello che hanno intorno.

 


 

 

 

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 MONUMENTAL COSTRUCTIONS | Olivier Grossetête – Residenza artistica